Deontologia Dello Psicologo Penitenziario
25 settembre, 2007 by Agata Romeo - Psicologo
Categoria: Deontologia, Psicologia Penitenziaria
I – PREMESSA
A partire dal 1975, con la riforma dell’Ordinamento Penitenziario, si è avuto un veloce sviluppo della pratica della Psicologia in ambito penitenziario. Tale sviluppo ha determinato la necessità di interrogarsi sul rispetto dei principi etici e deontologici dello Psicologo, in particolare di come questi principi si declinino durante l’esecuzione della pena, se introducano nuove e differenti questioni etiche, se i principi e gli standard etici attuali, così come formulati nel Codice Deontologico degli Psicologi Italiani, nel meta-Codice europeo e nelle “raccomandazioni per una pratica etica nei contesti legali” emanati dall’EFPA(2, 3), siano appropriati nella valutazione etica del comportamento degli Psicologi.Le questioni aperte sono solo in parte comuni alla Psicologia Giuridica ed agli altri operatori penitenziari. Nella maggior parte dei casi i dilemmi etici investono lo Psicologo penitenziario con una maggiore intensità e con ulteriori elementi di criticità. Si tratta di una area disciplinare dove spesso si corre il rischio di mettere in atto comportamenti inadeguati, che possono sfociare anche in veri e propri atti contrari all’etica professionale.In via generale riteniamo che i principi deontologici fondamentali dello Psicologo italiano contemporaneo possano essere considerati i seguenti:- Rispetto di tutti i diritti fondamentali delle persone, come sancito sia dalla Costituzione italiana sia dalla “Dichiarazione universale dei diritti umani”.- Responsabilità individuale, professionale, sociale.- Integrità, onestà, e soprattutto lealtà a livello sia individuale sia professionale.- Autonomia ed identità professionale.- Competenza (intesa sia come consapevolezza tecnica sia come auto-consapevolezza delle proprie capacità e dei propri limiti).- Promozione attiva del benessere individuale e sociale (tutto ciò a tutela complessiva dell’utente, del committente, del gruppo professionale e del singolo professionista).Il presente lavoro si pone l’obiettivo di esaminare l’applicazione dei principi deontologici in ambito penitenziario, nell’esecuzione penale esterna, nei tribunali di sorveglianza e nella giustizia minorile, al fine di evidenziarne le modalità attraverso le quali ognuno di essi possa essere non solo rispettato, ma soprattutto affermato e promosso.Si vuole così contribuire anche a migliorare la qualità dell’intervento psicologico fornito e, contestualmente, favorire il consolidamento della Psicologia penitenziaria come disciplina scientifica e pratica professionale.Le indicazioni che seguono sono dirette a tutti gli psicologi che operano in ambito penitenziario in modo continuativo o occasionale: consulenti in qualità di esperti ex art. 80 L. 354/75; di ruolo dell’Amministrazione Penitenziaria e della Giustizia Minorile; di altri servizi pubblici o privati. Esse non sono sostitutive delle norme del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani (C.D.P.I.), che lo Psicologo penitenziario è ovviamente tenuto ad osservare al di là della propria specialità.
II – CONSIDERAZIONI GENERALI
Difficoltà del contesto
Il contesto in cui opera lo Psicologo penitenziario è quello di una istituzione totale che di per sé può produrre situazioni di disagio, indurre problematiche psicologiche e psicopatologiche e rendere gli interventi di prevenzione più complessi, ad esempio quelli tesi a prevenire i rischi di suicidio in quanto spesso i soggetti più esposti ad essi vivono in situazioni di isolamento relazionale che accrescono le loro difficoltà. La detenzione condiziona in modo determinante il soggetto sia sotto il profilo intrapsichico che comportamentale, nonchè delle sue reazioni agli stimoli. Alcune manifestazioni del soggetto sono quindi condizionate più dal contesto che dalla personalità stessa.Le limitazioni alla vita affettiva, sessuale e relazionale risultano anch’esse evidenti e pertanto non minimizzabili. Infine, il contesto penitenziario spesso facilita stati di regressione e di deresponsabilizzazione. L’Istituzione stessa tende a rinforzare, anziché contrastare, aspetti disfunzionali della personalità. Basti considerare, come esempio, la relazione tra fantasmatizzazioni paranoidee e la persecutorietà insita nelle dinamiche istituzionali.
Rischio della violazione degli elementari diritti umani
La detenzione può determinare violazioni degli elementari diritti umani (incluso il diritto alla salute). All’interno degli istituti penitenziari, come del resto avviene in ogni istituzione totale, il rispetto dei diritti individuali non è sempre sufficientemente garantito a causa delle più o meno esplicite necessità di tutelare i legittimi interessi di sicurezza e difesa sociale.
Consapevolezza delle conseguenze dell’intervento
Lo Psicologo Penitenziario esprime valutazioni che hanno conseguenze importanti per l’utente/detenuto e per la società. Egli infatti contribuisce, direttamente o indirettamente, ad incidere sulla libertà del detenuto e conseguentemente sulla tutela della collettività.
Complessità degli aspetti sociali e culturali
Lo Psicologo penitenziario si trova a lavorare con persone appartenenti a culture diverse, sia dal punto di vista della provenienza socio-ambientale che linguistico-geografica, nonchè a gruppi socialmente svantaggiati o che presentano marcate problematiche. Per capire queste persone e non incorrere in “malintesi culturali” è necessario acquisire strumenti per decodificare differenti sistemi culturali e sociali. E’ inoltre utile individuare eventuali pregiudizi all’interno della cultura locale del carcere e nella percezione della figura culturale dello Psicologo.
Posizione morale rispetto al reato
Lo Psicologo penitenziario si confronta sistematicamente con un’eterogeneità di reati che possono suscitare gradi diversi di disapprovazione sociale e personale e, quindi, possibili reazioni morali negative da parte dello psicologo.
Limiti della conoscenza psicologica e delle capacità predittive
Le richieste del sistema penitenziario interrogano i limiti della conoscenza psicologica per quanto riguarda le capacità predittive. Si pone pertanto il problema di sensibilizzare i diversi attori operanti nel settore alle difficoltà di questo tipo di attività, all’interno di una riflessione generale sull’interazione tra modello teorico di riferimento, metodologie adottate e criteri di predizione.
Forte esposizione alla critica
Il lavoro dello Psicologo penitenziario, specialmente nei casi in cui la valutazione è finalizzata alla concessione di misure alternative alla detenzione, è ricco di conseguenze anche da un punto di vista sociale. I risultati di tale valutazione sono, ovviamente, influenzati dalla pratica metodologica e dai principi teorici di riferimento. Tale esposizione del lavoro richiede che lo Psicologo penitenziario sia preparato a ricevere e confrontarsi con critiche da parte degli utenti, del committente, dei colleghi e della società.
III – QUESTIONI PROBLEMATICHE E RELATIVE RACCOMANDAZIONI
1. Rispetto di tutti i diritti fondamentali delle persone in condizione di privazione della libertà.
Non è sicuramente facile affrontare la questione del rispetto dei diritti umani, quando si tratta di cittadini in stato di privazione della libertà. Ciò nonostante ed in virtù di tale condizione, deve essere loro garantito il rispetto dei diritti fondamentali. A salvaguardia degli stessi è necessario garantire un’ adeguata assistenza psicologica in misura non inferiore a quella che viene garantita ad ogni cittadino e, comunque, congrua rispetto alle esigenze di reinserimento sociale del detenuto (cfr. art. 25 C.D.P.I.).
2. Il doppio mandato: non corrispondenza tra “committente” e “utente finale
“Il “doppio mandato” con cui lo Psicologo penitenziario si deve confrontare è strutturale e non episodico. Il committente primario è l’Istituzione (la società, l’Amministrazione penitenziaria, la Magistratura di Sorveglianza).Il conflitto di interessi tra “Istituzione” e “cliente” è quindi evidente e deve pertanto essere dichiarato. Lo Psicologo penitenziario deve esplicitare con chiarezza i termini delle proprie responsabilità ed i vincoli a cui è tenuto professionalmente (cfr. art. 32 C.D.P.I.). In altri termini lo Psicologo penitenziario deve essere consapevole delle limitazioni istituzionali del proprio intervento e deve tenerne conto il più possibile: anche quando non è chiamato a prendersi cura della sofferenza psicologica, deve riconoscerla e impegnarsi a non aumentarla, tenendo sempre conto della condizione di vulnerabilità in cui si trovano gli utenti a causa della restrizione della libertà.Il punto di riferimento per lo Psicologo penitenziario è comunque quello di sviluppare una situazione virtuosa in cui l’interesse del detenuto non dovrebbe essere in antagonismo con quello della collettività. Ad esempio, contribuire ad una valutazione positiva sulla concessione di misura alternativa alla detenzione in assenza di oggettivi fattori cha la giustifichino, ovvero reputare idonea ad “uscire” una persona che non è ancora pronta (sotto uno o più aspetti), non è un modo per proteggere né la società né la persona stessa.
3. La doppia richiesta dell’Istituzione
Lo Psicologo Penitenziario interviene in un “incrocio pericoloso” determinato dal duplice obiettivo (sicurezza e trattamento) del committente, che ne chiede l’intervento. Le richieste dell’Istituzione allo Psicologo riguardano prevalentemente lo studio della personalità, la prognosi della recidiva, l’idoneità a fruire di benefici (la cosiddetta “osservazione scientifica della personalità” e, subordinatamente, la tutela della salute psichica, l’attività di sostegno ed il trattamento. La richiesta del committente sembra essere orientata prevalentemente alla riduzione di situazioni critiche per la sicurezza sociale e penitenziaria, più che ad una vera e propria riabilitazione. Si tratta, in altri termini, di una tendenza che rende prevalente il controllo sociale rispetto alla reale promozione della salute psichica e del benessere psicologico e psicofisico delle persone detenute.Nel progetto trattamentale così impostato il detenuto rischia di rivestire il ruolo di oggetto e non di soggetto, con l’ovvio rischio di ricaduta negativa sulla riuscita del trattamento stesso. Infatti, per il buon esito di ogni esperienza a finalità trasformativa, è essenziale l’adesione del soggetto al progetto e la sua partecipazione attiva.Deve, inoltre, essere affermato il rapporto direttamente, e niente affatto inversamente proporzionale, tra trattamento e sicurezza. Il senso degli interventi di trattamento, dovrebbe infatti essere quello di produrre comportamenti che non confliggano con i bisogni di sicurezza individuale e collettiva.
4. La doppia richiesta del “cliente involontario”: un’alleanza possibile?
Anche la richiesta del “cliente” risulta spesso complessa, in quanto egli si trova nella posizione di “cliente involontario” sia dell’Istituzione che dello Psicologo penitenziario. In altri termini, egli si muove sul continuum compreso tra la richiesta di “uscire” ed una richiesta di aiuto per cambiare.La motivazione individuale verso l’intervento dello Psicologo è pertanto sempre da verificare. Possono essere presenti rilevanti meccanismi di difesa, tendenza a simulare o dissimulare aspetti patologici, strategie di manipolazione e strumentalizzazione per ottenere vantaggi (benefici premiali, ecc.).Tale condizione motivazionale aggiunge ulteriori resistenze a quelle presenti fisiologicamente in ogni relazione, resistenze che possono rappresentare un ostacolo alle possibilità di comunicazione autentica e di elaborazione del soggetto.E’ evidente che l’atteggiamento dell’individuo varia in base alla sua soggettività e che anche in un contesto “confinato” è comunque possibile creare l’occasione per attivare una riflessione sulla propria condizione ed avviare un’alleanza. In questo senso, gli interventi di sostegno e trattamento psicologico richiesti direttamente dal soggetto (la stessa osservazione può diventare fase diagnostica e di orientamento al trattamento) sono più assimilabili a quelli offerti dai servizi esterni. Tale attività dello Psicologo penitenziario rientra a tutti gli effetti nella funzione di tutela della salute psichica.
5. Dal conflitto all’etica attiva
L’incrocio pericoloso davanti al quale si trova lo Psicologo penitenziario è una caratteristica del suo lavoro, che si svolge in un contesto condizionato da elevata complessità relazionale.La base di partenza del suo operato deve pertanto essere il chiaro riconoscimento del possibile conflitto di interessi tra committente e utente, delle molteplici richieste del committente e delle diversificate domande dell’utente.La questione, quindi, non è rifiutare o evitare il conflitto, ma tenerne conto ed assumerlo come una delle caratteristiche del contesto dell’intervento. Lo Psicologo penitenziario si adopererà il più possibile per operare in tale contesto conflittuale alla luce dei principi della cosiddetta etica attiva.Un compito primario per lo Psicologo è “accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità” (cfr. art. 3 C.D.P.I.).Questo principio ci introduce al concetto di etica attiva. “E’ veramente troppo poco che uno Psicologo, per il senso etico della sua professione, sia chiamato solo … a non offendere …, a non attentare alla dignità umana e non invece ad azioni propositive come per esempio a rappresentare ed a contribuire alla dignità umana, nei limiti delle sue possibilità ed all’interno della sua professione. Sicuramente tutti gli Psicologi sono impegnati concretamente in tal senso, ma quella che è un’opzione personale dovrebbe diventare un valore ed un dovere professionale, un caposaldo dell’etica e della deontologia della categoria” (cfr. M. T. Desiderio, 2000).L’etica in tale concezione, non si definisce più soltanto come un “non-fare” cose contrarie alle norme o ai principi deontologici, ma “si trasforma in attività, fatta di azioni e parole”, finalizzate alla promozione ed al conseguimento del benessere individuale e collettivo. L’etica attiva, inoltre, è finalizzata al contemporaneo raggiungimento di tre obiettivi che per ogni Psicologo sono sempre da ritenersi fondamentali: la tutela dell’utente e del committente; la tutela del singolo professionista; la tutela del gruppoprofessionale degli Psicologi.Il riconoscimento sereno della complessità del mandato e della necessità di agire un’etica attiva permette di affrontare i complessi dilemmi etici che caratterizzano il lavoro dello Psicologo penitenziario.Va ricordato che il “cliente finale” rimane il soggetto da tutelare, e che spesso nemmeno il soggetto stesso ha consapevolezza dei propri bisogni reali. La situazione è resa ancora più complessa dal fatto che spesso lo Psicologo, nel contesto penitenziario come in molte altre aree della professione, assume di volta in volta funzioni e compiti differenti (per es. diagnosi, trattamento, sostegno psicologico, ecc.). Compiti che a volte non vengono compresi subito e con chiarezza dall’utente.
6. Limitazione del consenso informato e opportunità relazionale
Ottenere il consenso informato costituisce la base di trasparenza nel rapporto tra Psicologo e utente (cfr. art. 32 C.D.P.I.).E’ evidente che la condizione di privazione della libertà determina rilevanti problematiche che hanno effetti negativi sulla relazione con lo Psicologo e sulla possibilità di acquisire il consenso informato. Vanno segnalati anche i casi in cui le capacità cognitive del soggetto sono compromesse per ragioni endogene (disturbi psichici) o esogene (ad esempio situazioni di emergenza).Lo Psicologo penitenziario fornisce direttamente, non attraverso altri, informazioni comprensibili circa le sue prestazioni, le finalità e le modalità delle stesse, le regole che governano l’intervento e, quando possibile, la sua prevedibile durata (cfr. art. 24 C.D.P.I.), aspetto che quest’ultimo solo in parte è legato alle decisioni dello Psicologo.Esiste, e va riconosciuto, il diritto dell’utente/detenuto di rifiutare l’intervento dello Psicologo penitenziario.Per definire meglio la situazione può risultare utile differenziare il consenso informato all’attività di valutazione/osservazione da quello al trattamento. Tale differenziazione, sottolineando una sorta di discontinuità tra le due attività, può permettere una “messa a punto” della relazione, mirata a migliorare il clima e ridurre una fonte di possibile resistenza-opposizione del soggetto. Una analisi puntuale e trasparente del contesto istituzionale in cui si colloca la relazione (qual è la propria funzione all’interno dell’equipe, quale contributo si è chiamati a dare e a quale scopo) può aiutare il detenuto a definire le proprie motivazioni così come ad esprimere eventuali critiche ed iniziare in modo adeguato l’attività di osservazione. Tale analisi condivisa potrebbe già costituire da sé, per ciò che può far emergere anche a livello di capacità critiche del detenuto, l’“oggetto dell’osservazione”. Tale trasparenza è in linea con una prassi che vuole tener conto dell’asimmetria nella relazione.
7. Limitazione della riservatezza / il segreto professionale
E’ evidente che nel mandato stesso dello Psicologo penitenziario non ci sono sempre confini assoluti per il segreto professionale. Il grado ed i limiti della riservatezza possono variare. Essi dovranno quindi essere sempre chiariti e a volte essere anche rinegoziati.Esiste una chiara limitazione della riservatezza in ambito penitenziario, spesso anche nei casi in cui le informazioni acquisite possono determinare, se non adeguatamente protette, un danno per il detenuto.Lo Psicologo penitenziario è ovviamente tenuto al segreto professionale (cfr. art. 11 C.D.P.I.), ma è altresì tenuto a comunicare al cliente le limitazioni della segretezza (cfr. art. 24 C.D.P.I.). Pertanto occorre sempre aver chiari gli oggettivi limiti di tale riservatezza e segretezza soprattutto in alcune situazioni specifiche (tendenza all’autolesionismo e/o al suicidio; rischi di violenza e/o di omicidio; rischi di evasione; notizie di reato ecc.)Lo Psicologo penitenziario, nel caso di interventi di gruppo, è tenuto a sollecitare e responsabilizzare i componenti al rispetto del diritto di ciascuno alla riservatezza (cfr. art. 14 C.D.P.I.).Compatibilmente con le esigenze di sicurezza, è ovviamente necessario che anche a livello strutturale (spazi per colloquio, ecc.) sia garantita la riservatezza al detenuto.
8. Limitazioni del “setting”
Il contesto penitenziario, la precarietà degli spazi e la necessità di garantire l’incolumità e la sicurezza dello Psicologo stesso (nel migliore dei casi attraverso il solo controllo visivo) costituiscono fattori che di per sé sicuramente non creano le condizioni idonee per costituire un “setting” accettabile (a volte nemmeno dignitoso). Pur nella complessità del contesto è necessario affermare la necessità di un “setting” adeguato che riconosca il valore e la specificità dell’intervento psicologico, evitando il paradosso di essere chiamati a svolgere un compito, ma di non essere messi nelle condizioni di svolgerlo, inviando di conseguenza un segnale di precarietà e sfiducia al cliente/detenuto. E’ utile qui definire le condizioni minime di possibilità di svolgimento del proprio lavoro: stanze idonee, possibilità di svolgere i colloqui in contesto acustico adeguato, ecc. In caso contrario occorre fornire indicazioni su ciò che è possibile e ciò che non è fare.
9. Mancanza della possibilità della scelta dello Psicologo
La possibilità di scegliere lo Psicologo di fiducia e di parte non è prevista nella fase di “osservazione” finalizzata alla valutazione del soggetto.Nell’ambito del sostegno e/o del trattamento terapeutico il detenuto può invece richiedere l’intervento di un professionista esterno. Tale evenienza non escluderebbe la competenza istituzionale dello Psicologo penitenziario, ma la integrerebbe con altri utili interventi.
10. Pregiudizi sociali e lavoro caso per caso
Non si possono e non si debbono mai dare “ricette generali”: ogni situazione va compresa e determinata di volta in volta, caso per caso. Un numero sempre maggiore di persone vivono secondo criteri diversi da quelli della maggioranza. Non esiste un modello “ideale” al quale sacrificare o integrare lo stato di benessere soggettivo. In questo senso il termine “penitenziario” rimanda ad una prassi che si sviluppa entro i confini della “impossibilità a trasformare in generale ed oggettivo ciò che è invece inevitabilmente soggettivo”, e cioè unico, singolare, irripetibile. Nell’esercizio della professione e, quindi, anche nel contesto penitenziario, “lo Psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità. Lo Psicologo utilizza metodi e tecniche salvaguardando tali principi e rifiuta la sua collaborazione ad iniziative lesive degli stessi” (cfr. art, 4 C.D.P.I.).Il “rispetto delle opinioni e credenze” non equivale però a dire che lo Psicologo avalli collusivamente sistemi valoriali contrari ai principi etici (basti pensare al confronto con la cultura mafiosa) o ai principi del diritto umanitario internazionale. Il rispetto dell’altro nasce dalla comprensione di chi è l’altro e di come è arrivato ad essere tale. Ciò non esonera lo psicologo, in un processo a valenza trattamentale/trasformativa, dal proporre un modello di relazione con tendente all’integrazione ed al superamento del conflitto intra ed interindividuale.
11. Esiste una incompatibilità tra le diverse funzioni (ad es. valutazione e trattamento)?
Il problema della incompatibilità si pone quando l’intervento dello Psicologo si sviluppa sia nella fase di valutazione/osservazione finalizzata alla concessione di benefici o misure alternative sia successivamente, nella fase di sostegno e trattamento.Se l’intervento dello Psicologo si colloca, secondo una logica moderna della presa in carico e della continuità dell’intervento, all’interno di un vero e proprio servizio di Psicologia, le incompatibilità delle funzioni si riducono, pur restando aperta la questione della opportunità da valutare caso per caso.Nella sequenza “accoglienza/nuovi giunti – diagnosi/osservazione – trattamento psicologico”, l’esprimere valutazioni significative e con evidenti ricadute sulla libertà del soggetto non riguarda solo il momento della diagnosi/osservazione, ma anche quello del trattamento psicologico. Ciò crea evidenti problematiche deontologiche.Un modo per affrontarle è collocarle all’interno della relazione Psicologo-detenuto. Un rapporto improntato alla trasparenza ed alla condivisione con il soggetto può rendere compatibile lo svolgimento di funzioni diverse.In alcuni casi una soluzione potrebbe venire dalla separazione di funzioni tra Psicologi dello stesso Servizio.
12. Documentazione / pareri scritti e verbali
Tra i compiti dello Psicologo Penitenziario c’è la produzione di relazioni scritte e pareri verbali per la valutazione psicologica, di osservazione prognostica, di aggiornamento, ecc. Si tratta di contributi importanti al lavoro dell’équipe ed alla stesura della “relazione di sintesi” destinata al Tribunale di Sorveglianza.Sia la relazione che il parere verbale deve avvalersi di un linguaggio comprensibile e non eccessivamente specialistico, e limitare le informazioni a quanto strettamente necessario per le finalità richieste (cfr. art. 13 C.D.P.I.).Lo Psicologo penitenziario deve avere particolare cura nel redigere e conservare appunti, note, scritti o registrazioni di qualsiasi genere e sotto qualsiasi forma che riguardino il soggetto (cfr. art. 17 C.D.P.I.).Inoltre, deve adoperarsi affinché gli atti da lui scritti in relazione a interventi non finalizzati all’osservazione (ad esempio note sul colloquio di primo ingresso o sul colloquio in casi di emergenza) non vengano impropriamente utilizzate da altri membri dell’èquipe per la stesura di documenti di osservazione.
13. Partecipazione al Consiglio di disciplina allargato (la funzione “sanzionatoria”)
Un compito previsto per legge ed al quale lo Psicologo penitenziario non può sottrarsi è la partecipazione con un altro collega, al Consiglio di disciplina allargato. Questo strumento è finalizzato a decidere l’attribuzione di un regime di sorveglianza particolare caratterizzato da maggiori restrizioni con la conseguente perdita di alcuni benefici.In questo contesto lo Psicologo penitenziario è chiamato a svolgere un ruolo di valutazione della gravità di particolari comportamenti e delle misure da adottare, misure di tipo quasi esclusivamente sanzionatorio. Spesso si trova ad esprimere il suo parere senza conoscere il detenuto, utilizzando strumenti indiretti di indagine (dati biografici agli atti, informazioni e comportamenti riferiti dagli altri operatori, ecc.). Tale compito esprime ai massimi livelli le contraddizioni e le difficoltà già messe in evidenza.La procedura stessa presenta aspetti deboli e di scarsa tutela dell’ utente in quanto non facilita la conoscenza diretta del caso. Sarebbe opportuno, invece, lavorare su un’ adeguata e attendibile documentazione (cfr. art. 7 C.D.P.I.) unita ad una conoscenza diretta ed approfondita del caso. Solo in questo modo si può evitare un comportamento deontologicamente scorretto.
14. Rapporti con altre figure professionali
Così come avviene in molti altri luoghi ed aree di attività, anche lo Psicologo Penitenziario lavora e interagisce con una molteplicità di figure professionali: direttore, educatore, assistente sociale, polizia penitenziaria, medico, psichiatra, magistrato, volontario, insegnante, ecc. Si pone pertanto la questione di avere chiarezza sulle singole specifiche competenze. Nel contempo deve cogliere le dinamiche del funzionamento dell’istituzione penitenziaria e dei gruppi esterni ed interni che vi operano.E’ evidente la presenza di una certa rigidità istituzionale legata ai ruoli, alle responsabilità, al mandato di controllo, alla necessità di garantire la sicurezza. Tutti questi fattori condizionano e in alcuni casi limitano i rapporti interprofessionali.Lo Psicologo penitenziario, nell’interazione con gli altri operatori, mantiene la propria autonomia scientifica e professionale, pur tenendo conto che norme giuridiche regolano il mandato (cfr. art. 6 C.D.P.I.). Inoltre, si adopera per impedire l’esercizio abusivo di attività strettamente psicologiche da parte di qualunque soggetto che non risulti abilitato allo svolgimento della Professione (cfr. art. 8 C.D.P.I.).
15. Rapporti con i Colleghi
I rapporti fra gli Psicologi Penitenziari devono ispirarsi al principio del rispetto reciproco e della lealtà. Lo Psicologo appoggia e sostiene i Colleghi che nell’ambito della propria attività, quale che sia la natura del loro rapporto di lavoro e la loro posizione gerarchica, vedano compromessa la loro autonomia ed il rispetto delle norme deontologiche (cfr. art. 33 C.D.P.I.). Lo Psicologo si astiene dal dare pubblicamente giudizi negativi sul lavoro dei colleghi e dall’esprimere critiche lesive del loro decoro e della loro reputazione professionale (cfr. art. 36 C.D.P.I.). Questa cautela non lo esime dal mantenere un’autonomia critica e di dissenso sostenuta da argomentazioni di tipo scientifico e professionale. Qualora ravvisi casi di scorretta condotta professionale che possano tradursi in danno per gli utenti o per il decoro della professione è tenuto a darne tempestiva comunicazione al Consiglio dell’Ordine competente sul territorio nel quale egli opera (cfr. art. 36 C.D.P.I.).Risulta necessario rafforzare le relazioni e gli scambi tra colleghi per creare all’interno dell’Istituzione una comunità degli Psicologi, che contemporaneamente interagisca con la più larga comunità degli Psicologi all’esterno. Lo scambio ed il confronto collettivo è da considerarsi risorsa per affrontare il rischio di essere isolati e strumentalizzati.
16. Competenza umana e formazione professionale dello Psicologo penitenziario
La complessità delle funzioni, la loro particolare incidenza sulla vita del soggetto, la molteplicità dei compiti richiedono una specifica formazione di base. Questa deve essere mantenuta a livelli adeguati (cfr. art. 5 C.D.P.I.) attraverso un continuo aggiornamento, in particolare per quanto riguarda i contenuti della propria operatività e la metodologia con la quale essi vengono trattati.Nella valutazione ed auto-valutazione del sapere e del saper fare dello Psicologo penitenziario è necessario tenere conto di tre aspetti fondamentali: capacità di definire le proprie competenze; capacità personali ed impegno nella formazione individuale; consapevolezza etica I particolari vissuti tipici del contesto rendono difficile mantenere nel tempo livelli adeguati di efficacia, in assenza di un’adeguata formazione preliminare sostenuta da un lavoro costante di supervisione.Al di là delle competenze teoriche e tecniche, lo Psicologo penitenziario necessita di una formazione nel campo clinico che possa favorire un’ adeguata gestione della complessa relazione che si sviluppa con i clienti in stato di privazione della libertà.L’aggiornamento continuo, la definizione dell’organizzazione dell’intervento psicologico e le modalità di lavoro in équipe multiprofessionale possono favorire il superamento della condizione di isolamento e separazione in cui hanno lavorato fino ad ora gli Psicologi Penitenziari, nonché di modalità di intervento lasciate al caso o alla singola iniziativa personale.E’ evidente che l’intervento psicologico in ambito penitenziario è un intervento fortemente specialistico e di particolare delicatezza. Pertanto è necessario formalizzare percorsi formativi adeguati per permettere agli Psicologi di formarsi ed aggiornarsi in relazione alla propria operatività in ambito penitenziario sia come consulente (esperto “ex art 80”) sia come personale di ruolo.
17. Promozione del benessere individuale, di gruppo e della “comunità penitenziaria”
Oltre agli interventi specifici di osservazione, diagnosi, trattamento e valutazione, va ricordato che compito generale dello Psicologo è quello della promozione del benessere individuale, di gruppo e della “comunità penitenziaria” (cfr. art. 3 C.D.P.I.). Ciò che riguarda il benessere personale che opera all’interno del contesto penitenziario evidenzia quindi un altro capitolo, ampio e complesso, di ciò che può essere sviluppato dallo Psicologo che opera all’interno del sistema penitenziario.
18. Responsabilità personale, professionale e sociale
Lavorare come Psicologo penitenziario comporta rilevanti responsabilità a livello personale, professionale e sociale.La stessa immagine e fiducia pubblica nella Psicologia penitenziaria può essere messa in discussione da un’ inadeguata condotta personale e professionale: condotta che, in alcuni casi, può determinare gravi conseguenze nei confronti del committente, dell’utente finale e della società (cfr. art. 3 C.D.P.I.).(di seguito).Ad ogni Psicologo penitenziario è pertanto richiesto il rispetto di elevati standard etici, deontologici e professionali.
Documento approvato daConsiglio Nazionale Ordine PsicologiSocietà Italiana Psicologia PenitenziariaRoma, 2005
Note
(1) Gruppo lavoro Ordini Psicologi Emila-Romagna / Marche e SIPP: C. Antonelli (Umbria), A. Bruni (Marche), C. Calendi (Ordine Emilia-Romagna), F. Dionigi (Umbria), F. Frati (Presidente Ordine Emilia-Romagna), M. Gatti (Lazio), P. Giannelli (Umbria-Lazio), F. Gioggi (Emilia-Romagna), D. Gran Dall’Olio (Ordine Emilia-Romagna), G. La Face (Sicilia), A. Lettieri (Toscana, OPG), M. Micozzi (Presidente Ordine Marche), F. Moretti (Piemonte), S. Serragiotto (Veneto), D. Ricco (Puglia). Hanno collaborato: G. Ciarelli (Toscana), F. Maraldi (Emilia-Romagna), R. Merola (Lazio), E. Pasqualotto (Piemonte), L. Tromboni (Lombardia). Stesura testo: A. Bruni (Presidente Società Italiana Psicologia Penitenziaria).
(2) Fonti: American Psychology Law Society, Division 41 of the American Psychology Association, The Specialty Guidelines for Forensic Psychologist, 1991. Associazione Italiana Psicologia Giuridica, Linee guida deontologiche per lo Psicologo forense, Roma, 1999. Consiglio Nazionale Ordine Psicologi, Codice Deontologico degli Psicologi italiani, Roma, 1997. Carta di Noto, 1996. Council of Europe, Committee of Ministers, Recommendation No. R (98) 7 of the Committee of Ministers to Member States Concerning the ethical and organisational aspects of Health Care in Prison, 1998. EFPA’s Task Force on Forensic Psychology, The European psychologist in forensic work and as expert witness. Recommendations for an ethical practice, London, 2001. European Federation of Professional Psychologists Associations, Meta-Code of Ethics, Athens, 1995.
(3) Riferimenti: Antonelli C., Riflessioni sulla deontologia (manoscritto). Aparo A., Campo carcerario: quale alleanza? In Vigorelli, M. (a cura di) Istituzione tra inerzia e cambiamento, Bollati Boringhieri, Torino, 1994, pp. 382-399. Bruni A., Lo Psicologo in carcere: criticità e prospettive. Lezione corso Psicologia penitenziaria, Università Urbino, 2004. Calvi, E., Gulotta, G. (1999), Il codice deontologico degli psicologi italiani commentato articolo per articolo. Milano, Giuffrè, 1999. De Leo G., Patrizi P., Psicologia Giuridica. Il Mulino, Bologna, 2004. Desiderio M. T., Etica e promozione della salute. In: Parmentola C., Il soggetto Psicologo e l’oggetto della Psicologia nel Codice Deontologico degli Psicologi italiani, Milano, Giuffrè, 2000. Frati F., Lo Psicologo in ambito penitenziario e le sue relazioni con la Criminologia clinica. In: Nuove tendenze della Psicologia, n. 1, Vol. 1, Febbraio 2004. Frati, F., I principi deontologici fondamentali dello Psicologo nella pratica professionale del terzo millennio”. In: Bollettino d’informazione dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, n. 2, Anno IX, Aprile 2004. Giannelli P., Carcere: più controllo, meno sicurezza. Quale ruolo per le scienze umane nel mondo penitenziario? In: Bollettino d’informazione dell’Ordine degli Psicologi dell’Emilia-Romagna, n. 2, Anno IX, Aprile 2004. Gius E., Zamperini A., Etica e Psicologia. Milano, Raffaello Cortina Editore, 1995. Pajardi, D., Tra unita’ della psicologia giuridica e specificita’ della psicologia penitenziaria: riflessioni sulla formazione e sull’identita’ professionale. In: Newsletter dell’ Ordine degli Psicologi della Lombardia, 2002. Patrizi, P., Psicologia giuridica penale. Milano, Giuffrrè, 1996. Recrosio L., Aspetti deontologici dell’intervento dello Psicologo in Psicologia giuridica”, Convegno “Psicologia e Giustizia: ruoli, funzioni, competenze dello Psicologo in campo giudiziario e penitenziario“, Ordine Psicologi Friuli Venezia Giulia, 2001. Serra C., Psicologia penitenziaria. Giuffré Editore, Milano, 1999. Tagliente F., Alcuni criteri deontologici dello Psicologo penitenziario, in Calvi, E. (a cura di), Lo Psicologo al lavoro. Contesto professionale, casi e dilemmi, deontologia, Milano, Franco Angeli, 2002. Terracina G., Lo psicologo nelle carceri italiane. In: Il reo e il folle, 12/13, 2000, pp. 47-78. Tromboni L., Dentro il carcere….fuori dal setting. In: Costruzioni Psicoanalitiche, n. 1/2002, Franco Angeli, Milano, pp. 84-94.